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Il futuro della Medicina Generale

Ufficio stampa • 15 febbraio 2022

Studio Mercer: più organizzazione sì, dipendenza no

La perdita, da parte del paziente, della libertà di scelta e del rapporto fiduciario. L’impossibilità di garantire la prossimità del medico di famiglia e i tempi di visita a domicilio. Una maggiore rigidità – legata a ferie, permessi, sostituzioni… – con un impatto importante sugli orari di reperibilità per gli utenti. Costi più alti per il Servizio Sanitario Nazionale: la rigidità del rapporto di dipendenza male si correla con la necessità di adottare un sistema delle cure territoriali adattabile, snello, poco burocratizzato, efficiente, diffuso ed equo. L’insostenibilità finanziaria dell'ENPAM, la cassa previdenziale dei camici bianchi, a cui verrebbero a mancare i contributi di moltissimi liberi professionisti convenzionati.

Sono solo alcuni degli “effetti dannosi” legati alla possibilità – sollecitata dalla Conferenza Stato-Regioni – di trasformare in dipendenti della sanità pubblica i medici di medicina generale, che oggi lavorano in regime di convenzione e mantengono la loro autonomia nello status di liberi professionisti. A dirlo è uno studio realizzato da Mercer, società a valenza internazionale di consulenza sul Capitale Umano, per i Servizi Attuariali e Previdenziali, e realizzato con il coordinamento dell’ex ministro del welfare Maurizio Sacconi.


L’analisi, pubblicata la scorsa settimana, propone una ridefinizione del ruolo dei medici di famiglia nel contesto dei nuovi servizi sociosanitari territoriali disegnati e finanziati dal PNRR, il Piano nazionale di Ripresa e Resilienza, e traccia una linea di percorso chiara: «Le strutture più prossime ai cittadini – si legge – dovranno risultare le società tra professionisti, spoke rispetto agli hub rappresentati dalle Case di Comunità. Occorre una drastica evoluzione della libera professione convenzionata che di fronte alle nuove responsabilità e opportunità deve organizzarsi in forme associate. La funzione del MMG deve essere riconsiderata alla luce dei nuovi compiti e doveri verso il paziente e delle nuove opportunità indotte dalle tecnologie o dai nuovi assetti organizzativi».

Tra i punti chiave dell’analisi, insomma, un obbligo per i medici di famiglia di associarsi in modo che i loro studi, con più personale e tecnologie, possano garantire servizi e una reperibilità 12 ore al giorno, lavorando in sinergia con le future Case di Comunità. Una visione che molto si avvicina a quella da sempre proposta dalla FIMMG, desiderosa di essere protagonista dell’evoluzione della medicina generale, per rispondere alle esigenze dei cittadini e ai bisogni di cura dettati dall'aumento delle cronicità.


Tanti i temi che lo studio passa in rassegna per approdare a queste conclusioni, tra cui:

  • la necessità di attivare, finalmente, sul piano nazionale il Fascicolo Sanitario Elettronico, di aumentare la digitalizzazione e di potenziare gli strumenti informatici (dalla telemedicina al telemonitoraggio, alla telesorveglianza);
  • le diseguaglianze dei servizi sul territorio da appianare, colmando le disparità non solo tra Regioni, ma anche tra centri cittadini e aree periferiche e rurali;
  • la ripartizione dei fondi del PNRR destinati alle cure territoriali e le strutture che le Case e gli Ospedali di Comunità dovranno avere, anche in termini di personale in servizio, per poter funzionare davvero;
  • la direzione su cui deve muoversi il nuovo Accordo Collettivo Nazionale per recepire e integrare questa nuova figura di medico: «L’ACN – dice lo studio – deve essere in conseguenza ridisegnato e finanziato. In particolare, i criteri di accreditamento vanno aggiornati sia dal punto di vista strutturale (locali per diagnostica, consolle di monitoraggio da remoto dei pazienti, sale di attesa, kit emergenza urgenza, messa a norma e sicurezza) che organizzativi (personale di studio, infermieri, professionalità sociosanitarie)»;
  • il problema dell’accesso alla professione tra programmazione sbagliata sui territori e scarso appeal, rispetto ad altre specialità ospedaliere, della formazione in medicina generale: «Giova sottolineare – si legge nel documento – che vi è una disparità economica di trattamento dei MMG in formazione (circa 11mila euro) rispetto agli specializzandi ospedalieri (circa 26mila euro) con conseguente demotivazione dei primi che si riflette, oltre che sul percorso formativo, anche sullo “status” percepito talvolta come medico di “serie B” rispetto agli specializzandi in Università».


Il dualismo tra rapporto di convenzione e dipendenza al centro del commento arrivato dal Segretario generale della FIMMG Silvestro Scotti. «Si vuol far passare il concetto – dice – che solo il dipendentismo sia un modello di efficacia e di efficienza e che rappresenti l’unica soluzione per migliorare l’offerta del territorio. Crediamo, invece, che l’obiettivo sia mettere in discussione l’efficacia dei principi di autonomia e dei profili professionali deontologici definiti dalla Costituzione. Guai a pensare che un modello contrattuale subordinato sia la soluzione».


Un convinto via libera ai principi esposti nell'analisi condotta da Mercer arriva anche dall'ENPAM. «I bisogni di salute dei cittadini – sottolinea il presidente Alberto Oliveti – si soddisfano garantendo la possibilità di scegliere un medico di propria fiducia e assicurando una prossimità fisica. Di certo già dall'immediato futuro il medico di medicina generale andrà messo nelle condizioni di fare più gioco di squadra».

Un disegno impensabile, però, se il medico di famiglia diventasse dipendente, «con tutte le rigidità – continua Oliveti – che questo rapporto comporta. Dovrà cambiare invece il meccanismo di remunerazione, così il professionista potrà assicurare assistenza e cure primarie con tutte le modalità: nel proprio studio, con le visite a domicilio e nelle attività comunitarie. Così e con l’adeguato supporto tecnologico e tecnico-amministrativo, il medico di famiglia potrà diventare un vero primario del proprio “reparto” di medicina fiduciaria, al servizio della persona e della comunità».


Quella proposta dallo Studio Mercer, insomma, è una riforma delle cure territoriali vera e complessa che andrà a tutto vantaggio dei pazienti. «In sintesi – conclude l’analisi – la primissima linea dei medici associati, ciascuno dei quali dotati di un microteam (personale amministrativo e infermieristico), deve essere prossima, flessibile, attrezzata per la medicina di iniziativa e per i primi bisogni, capace di dialogo con i pazienti a domicilio, le loro esigenze, dialettica con le prestazioni delle Case di Comunità. La complessità delle prestazioni, la necessaria integrazione tra colleghi per garantire insieme le 12 ore quotidiane, la collaborazione con figure esperte nell'uso delle tecnologie e nei dati non impediscono ma esaltano il rapporto fiduciario del medico con il paziente».

Scarica lo studio Mercer completo

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